LA STORIA – le cinque cappelle

Le cappelle del Sacro Monte attualmente esistenti sono cinque (tutte fornite di un portico antistante, in pietra intonacata, che doveva servire da luogo invitante alla preghiera, al riposo del viandante e al suo riparo contro improvvisi temporali) e si trovano lungo la comoda mulattiera a tornanti, gradonata e acciottolata, detta degli “Ortüsc”, costruita tra il 1694 e il 1695 sull’antico sentiero che collegava l’abitato di Campiglia Cervo con il Santuario di San Giovanni d’Andorno, a capo dei due ponti del paese, dove una cappelletta ricorda la “Peregrinatio Mariae” del 1949.

Poste in corrispondenza dei cambi di direzione, le cappelle sono omogenee per caratteri costruttivi, manto di copertura e semplicità dell’impianto planimetrico, impostato su una cella di rigorosa forma quadrata, sia pure con dimensioni leggermente differenziate.
Le cinque cappelle sono dedicate, in ordine di percorso, ai santi anacoreti dei primi secoli del Cristianesimo: Sant’Paolo Eremita e Sant’Antonio Abate, Sant’Ilarione, San Girolamo, Sant’Onofrio e Santa Maria Maddalena penitente.

Ma chi è l’anacoreta? L’anacoreta è un asceta, cioè un religioso che, per penitenza, vive separato, in luoghi solitari. Anacoreta deriva infatti, da anachorein che, in greco, significa “ritirarsi, prendere le distanze”, quindi il termine indica colui che lascia il mondo (la parola è anche sinonimo di “eremita”, che significa colui che vive nel deserto, lontano dagli uomini; eremos significa infatti “deserto”). Questa prassi di vita, iniziata durante la terribile persecuzione dell’imperatore romano Decio, cioè tra gli anni 249 e 251, si sviluppò quando le conversioni in massa, favorite dalla pace costantiniana del 313, implicarono una cristianizzazione superficiale e frettolosa della popolazione, tra la quale tendevano a persistere residui di una mentalità e di comportamenti pagani. Persone bramose di una pratica cristiana genuina, sentendosi urtate, si ritirarono allora in ambienti più propizi a una vita di preghiera, di austerità spesso durissima, di lavoro manuale per sostenersi, nella piena autonomia di organizzare la propria giornata indipendentemente da regole e da superiori.

Il movimento anacoretico sembra sia stato inaugurato proprio da Paolo di Tebe, vissuto tra il 230 e il 335. San Paolo Eremita si ritirò nel deserto della Tebaide, l’antica regione dell’Alto Egitto, dove successivamente fecero penitenza altri anacoreti cristiani, tra i quali Sant’ Antonio Abate (251-356), che sviluppò il movimento, tanto da essere considerato uno dei fondatori della vita monastica in Oriente. Nella sua lunga vita di 105 anni, Sant’Antonio Abate rivelò molte virtù, compì miracoli e si rese famoso per aver superato diverse tentazioni diaboliche. La memoria liturgica di Sant’Antonio Abate viene celebrata annualmente il 17 gennaio.

Alcuni anacoreti dei primi tempi del Cristianesimo dimoravano in celle o grotte isolate, altri a gruppi di due o tre, altri si radunavano di sabato o di domenica in una chiesa centrale per l’ufficiatura eucaristica, altri si collocavano nel raggio di un eremita celebre che fungeva loro da direttore spirituale. Da questa progressione emerge la tendenza ad attenuare un isolamento assoluto, non privo di connotazioni negative, avviando a quella convivenza (cenobitismo), che avrebbe prevalso successivamente (cenobita deriva da koinos bios che, in greco, significa “vita comune”, perciò il cenobita è colui che vive una vita comune organizzata).

Lungo questa linea di sviluppo del cenobitismo si colloca anche il passaggio da un eremitismo permanente a uno temporaneo, considerato preparazione ascetica a una successiva attività pastorale. Seguirono questa trafila alcuni tra i più alti nomi dell’antichità cristiana, quali: San Basilio, San Gregorio Nazianzeno, San Giovanni Crisostomo, San Benedetto di Norcia e altri Padri della Chiesa.

La prima cappella è dedicata a Sant’Antonio Abate e San Paolo Eremita.  L’edificio, con frontone verso valle, è quello architettonicamente più pregevole per rifiniture, proporzioni e qualità nell’esecuzione. All’interno, oltre alla statua di due santi con le teste distrutte, sulle tre pareti, visibili attraverso la grata, sono dipinte scene di vita dei due eremiti rifugiatesi nel deserto. L’affresco che appare sulla parete centrale della cappella, eseguito nel Settecento dal valente pittore Pietro Lace di Andorno, raffigura la salita al Cielo dell’anima di Paolo, tra i cori degli Angeli, circondata dai Profeti e dagli Apostoli, secondo la visione avuta da Antonio che, novantunenne, ha seppellito il confratello anacoreta che con lui si era nutrito, per qualche tempo del pane prodigioso loro recato da un corvo.

La seconda cappella che si incontra salendo da Campiglia Cervo è quella dedicata all’anacoreta Sant’Ilarione, il cui nome significa “allegro, gaio, lieto”. Discepolo di Sant’Antonio Abate, Ilarione, nato nel 291, fondò molti conventi in Palestina. Morì nell’anno 371. Le mani dell’eremita sono giunte in atto di preghiera. Sulle pareti sono dipinti diavoli, cavalli e personaggi in ricchi abiti, che porgono al santo doni terreni, forse per tentarlo.

La terza cappella ha per titolare il sacerdote e dottore della Chiesa San Girolamo, nato a Stridone, in Dalmazia, da nobile famiglia cristiana, verso l’anno 340. Seguì gli studi letterari a Roma e qui fu battezzato. Dopo aver abbracciato la vita ascetica, si recò in Oriente e fu ordinato sacerdote. Ritornato a Roma, fu segretario e amico del Papa San Damaso I. In quel periodo cominciò la revisione delle traduzioni latine della Bibbia e promosse la vita monastica. Si stabilì poi a Gerusalemme ove morì, ottantenne, nel 420. L’attività letteraria di Girolamo ha del prodigioso e gli procurò una celebrità senza precedenti; annoverato fra i primi quattro grandi Padri della Chiesa latina (con Sant’Ambrogio, Sant’Agostino e San Gregorio Magno) San Girolamo è da ritenersi il più grande erudito non solo del suo tempo, ma di tutta la latinità cristiana. Il calendario romano generale fa memoria di questo santo sacerdote e dottore della Chiesa il 30 settembre d’ogni anno. Sul cartiglio, ormai illeggibile, si coglie solo più il nome “Hieronimo”. La statua in terracotta dipinta è priva di testa e rappresenta la figura umana inginocchiata con un braccio ripiegato in atto di percuotersi il petto. Sulle pareti vi sono diverse figure con il santo orante e tormentato dai demoni che lo flagellano, lo Spirito Santo in forma di colomba, la Trinità, la salita al Cielo, il Figlio che regge la Croce e il Padre lo scettro.

La quarta cappella, che è la più piccola per dimensioni (sedici metri quadrati circa), e ora priva di pitture, è dedicata all’anacoreta egiziano Sant’Onofrio, morto intorno all’anno 400 dopo aver trascorso settant’anni di vita eremitica nel deserto della Tebaide, nell’Alto Egitto. Sant’ Onofrio è venerato il 10 giugno come patrono dei tessitori, probabilmente perché in vita era vestito solo dei suoi lunghissimi capelli e di una fascia di foglie sui fianchi. L’edificio presenta la parete di fondo interna irregolare e in leggera curva. Il santo in ginocchio ha le reni cinte di fronde intrecciate. La testa e il busto sono stati buttati a terra. Sull’apertura si trova un massiccio davanzale di buon disegno; una panca rustica, in pietra, consentiva il riposo dei viandanti e aveva anche funzione di inginocchiatoio.

La quinta cappella, la più vasta (occupa una superficie di trenta metri quadrati circa), ornata di porticato su due lati, rappresenta Santa Maria Maddalena, la peccatrice assolta e convertita da Gesù (Luca 7, 36-50), che divenne una penitente esemplare, in una solitaria caverna nel deserto. Maria Maddalena, la cui memoria annuale si celebra il 22 luglio, è simbolo di coloro che riconoscono e confessano i loro peccati, che credono che Gesù sia venuto nel mondo per salvare, redimere e portare novità di vita ed è simbolo di coloro che si arrendono all’amore di Dio, non a malincuore, non per paura, ma con una profonda intensità d’amore che si esprime in una ricchezza di gesti che scandalizzano le persone che credono d’essere giuste e non bisognose di misericordia. E sulla facciata di questa cappella si legge, seppur scolorita nel tempo, la scritta evangelica “Remit(t)untur ei peccata, quia dilexit multu(m)”, che significa “Le sono rimessi molti peccati, perché molto ha amato” (Luca 7, 47). La cappella ha doppia apertura a grata, doppio porticato rigorosamente simmetrico e due panche-inginocchiatoio in pietra. Maddalena nella statua in terracotta è raffigurata inginocchiata e in atto di preghiera con accanto un teschio. I dipinti sulle pareti raffigurano la stessa santa, con vedute di città e di mare.